Chi ha diviso corpo e mente? Perché si educa così tanto la mente a discapito del corpo?
Il corpo e la mente sono stati concettualmente divisi per la prima volta da Cartesio, nel 1600, da cui nasce la convinzione – che forse ha condizionato l’attuale sistema educativo e scolastico – che il corpo è composto da materia fisica, mentre la mente è sostanza non fisica, che i due elementi sono separati e la differenziazione dell’uomo dall’animale consiste nella presenza dell’elemento immateriale della mente. Dall’enunciato di Cartesio derivano tutte le negazioni e le svalutazioni del corpo, nonostante ci siano stati molti studiosi che hanno messo in dubbio tale netta scissione. Recentemente, il neurologo Antonio Damasio e altri studi di neuroscienze giungono alla conclusione che mente e corpo sono un unico sistema integrato.
Interessanti gli studi riportati nel libro “Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti” di M. Grazia Contini, Maurizio Fabbri, Paola Manuzzi, in cui sono ridefinite le cornici di senso all’interno delle quali corpo, mente, significati e contesti risultano inestricabilmente intrecciati e interagenti. Gli autori percorrono la storia della scissione corpo-mente e – dove in passato si riteneva che tutte le informazioni fossero elaborate e poi smistate dal cervello attraverso i neurotrasmettitori che eccitavano o inibivano i neuroni che, a loro volta, facevano lo stesso con i muscoli – oggi, l’attenzione degli scienziati si è spostata sui peptidi, disseminati in tutto il corpo, che sono lo strumento di comunicazione delle cellule, una specie di rete di informazioni diffusa in ogni parte del corpo.
Inoltre, non solo il corpo è collegato alla mente, ma anche il mondo circostante è strettamente interconnesso al corpo-mente, in quanto ciascuno è sia parte del mondo, frutto del suo tempo, delle esperienze che sta vivendo e dei condizionamenti che subisce, sia attore sociale, costruttore del suo tempo e portatore di cambiamento e trasformazione. La critica e la provocazione che gli autori propongono all’educazione tradizionale è quella di tendere a far entrare il mondo nella mente degli allievi, anziché fornire loro gli strumenti affinché la loro mente possa accedere al mondo, aiutandoli a progettarsi e ad incontrarsi con gli altri.
L’articolo di oggi è scritto a quattro mani con l’autrice del podcast TEIM, Sabrina Scotti, di cui riporto le parole tratte dal rispettivo podcast, con lo scopo di restituire un corpo alle nostre teste: “Vorrei sfatare la vecchia concezione della psicomotricità, intesa esclusivamente in termini riabilitativi, pensando che si rivolga solo a soggetti con disabilità o particolari problemi, non è così. Anzi, la psicomotricità fa bene a tutti, facilita la condivisione delle emozioni, esprimendosi in un clima di benessere, fa bene agli adulti perché la psicomotricità è una lente di ingrandimento sui bisogni dei bambini, che siano figli o allievi, e offre una preziosa opportunità di conoscenza, ascolto e comprensione sia del mondo dell’infanzia, che della nostra modalità espressiva. Nella relazione tra grandi e piccini, la comunicazione non verbale è la prima modalità di comunicazione con il mondo esterno e pone le basi per un attaccamento sicuro e una crescita armoniosa. Oggi, le proposte educative hanno troppo spesso una visione adultocentrica: spazi ristretti e tempi veloci rispecchiano sempre di più la frenetica esigenza degli adulti e sempre meno i bisogni profondi e naturali dei bambini. Inoltre, le proposte ricreative puntano troppo sulla competizione, piuttosto che sul piacere che deriva dall’attività stessa, e dal permettere al bambino di sentirsi capace e competente invece che migliore di qualcun’altro”.
Quando un bambino o una bambina va a scuola, porta tutto se stesso/a, ma corpo, emozioni e il proprio mondo interiore, sembrano essere soltanto elementi di intralcio e fastidio, limitando l’azione dell’insegnante sull’unica componente di esclusivo valore pedagogico ed educativo: la mente. Così, mentre l’intelligenza, soprattutto nella prima infanzia, procede dal movimento, dal fare concreto, dall’esperienza che passa dalle mani e dai piedi, insomma, dal corpo che è il centro dell’attività di apprendimento dei bambini e delle bambine, l’adulto tende a ridurre la bellezza di tale complessità umana in una mente da infarcire e un comportamento da forzare.
Ci dice di nuovo Sabrina: “Ecco, c’è bisogno di garantire nella pratica quelli che sono i diritti irrinunciabili dei bambini, già riportati sulla carta dei diritti del fanciullo: diritti come giocare, muoversi, sentirsi visti, capaci, accolti, rispettati nei propri ritmi e valorizzati nelle proprie peculiarità. La scuola invece è ancora troppo nozionistica e si rivolge essenzialmente alla mente, trascurando l’importanza che corpo e movimento, l’esperienza e la relazione, hanno in questa fase evolutiva, caratterizzandola profondamente. Complice anche il dilagante utilizzo della tecnologia, perdiamo sempre più di vista che le esperienze di valore sono tali, solo se vissute attraverso il corpo, perché è in questa dimensione che si fissano nella memoria in maniera duratura e indelebile, consentendo un apprendimento globale, piacevole e inconsapevole. Insomma, ci si preoccupa poco del benessere dei bambini, affannandosi a riempirli di contenuti e concetti, anziché scoprire il potenziale innato e originale di ciascuno di loro e sostenerlo, affinché ognuno trovi il suo modo naturale di esprimersi, di apprendere e di stare al mondo”.
Così, se da una parte stiamo assistendo alla difesa dell’infanzia che ha prodotto le Carte dei diritti minorili come la Dichiarazione (1958) e la Convenzione (1988) dell’ONU sui diritti dei bambini e delle bambine, dall’altra si è arrivati a parlare di “scomparsa dell’infanzia” (Neil Postman) o di “bambini senza infanzia” (Marie Winn). Cosa sta succedendo? Quali contraddizioni abitano il nostro pensiero e il nostro agire educativo?
Lasciamo aperte le domande invitando gli edunauti, lettori e lettrici, ascoltatori e ascoltatrici, ad approfondire la conoscenza del corpo, attraverso cui è possibile capire quale bisogno inascoltato si celi dietro il linguaggio del bambino, della bambina e, consapevoli di ciò, costruiscano itinerari educativi che concedano loro di crescere e di stare al mondo tutti interi: mente-corpo-emozioni-relazioni-mondo. Tutto questo senza dimenticare le storie e le conoscenze che nutrono la nostra mente, che ci permettono di sognare in grande, come ci ricorda Ossidi di Ferro nel relativo podcast.
Storie in cui “l’adulto si lascia guidare da ciò che emerge dal bambino durante la lettura”, perché i libri “sono come gli alberi e i luoghi che li racchiudono sono boschi, giardini pubblici senza recinti in cui è possibile entrare in contatto con gli altri: una lettura, sebbene intima e personale, ci condurrà comunque ad un incontro, alla condivisione, a poter essere confidenti negli altri che condividono con noi – o che hanno condiviso – un tratto di pagina, di strada, un’ombra di fronda, un frutto succoso”.
Così, nell’unità indissolubile della nostra complessità, potremo indagare identità, sistemi, etichette, senza restare intrappolati nel ridurre la profondità umana confinandola in un pensiero, in una credenza, in una preferenza, in un’identificazione, in un’opinione, ma lasciando che emerga la consapevolezza di ciò che siamo intimamente, di ciò che ci accumuna, della totalità indivisa dell’esperienza umana.
Michela Calvelli
Ascolta i podcast:
TEIM_Il movimento del corpo come finestra sul mondo interiore dei bambini
OSSIDI DI FERRO_La lettura come strumento di crescita