Come passare dalla scuola del “non si può” a quella del “si può” con Davide Tamagnini

Come passare dalla scuola del “non si può” a quella del “si può” con Davide Tamagnini

00:00 MICHELA. 

È possibile che la scuola passi dal paradigma dei problemi a quello delle possibilità? Avete mai pensato alla scuola come luogo di dinamiche relazionali? 
Sono Michela Calvelli e questo è Edunauta, l’esploratore di pratiche educative. Dialoghiamo con chi l’educazione la vive, per ri-sognarla e trasformarla insieme. 
Oggi esploriamo l’universo educativo del maestro Davide.
Davide Tamagnini prima di insegnare nella scuola primaria è stato docente nei corsi regionali di formazione professionale. Proprio in quest’ultimo contesto è nato il suo desiderio di trovare un modo di rendere la scuola un luogo veramente inclusivo e formativo, per tutti e per ciascuno.
Davide la valutazione e il tuo no al voto sono diventati la punta dell’iceberg del tuo lavoro, però noi oggi vogliamo esplorare il sommersoPartiamo dal titolo del tuo libro “Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini”: in particolare questo “Sì può fare”, dice bene il paradigma che hai rovesciato con il tuo agire, perché nei corridoi delle scuole si sente spesso dire esattamente l’opposto, “non si può fare”, allora ti chiedo: perché non si può fare e come si può passare dal “non si può” al “si può”?

01:30 DAVIDE. 
Ha a che fare con il perché è per chi facciamo questo lavoro. Se devo dire un passaggio, un meccanismo che può 
scattare nel passare proprio da un paradigma all’altro: il paradigma dei problemi, quello che vede tutto come un problema, quindi non si può fare questo per la sicurezza, non si può fare questo per questo motivo, non si può fare… si trovano sempre giustificazioni, al paradigma delle possibilità; allora forse il meccanismo è quello che non posso fare diversamente, cioè io non posso fare l’insegnante chiuso in classe, non posso fare una lezione usando una fotocopia di un altro libro, non posso e, se non posso, devo trovare un’alternativa. Allora questo vuol dire che qualche volta devi scontrarti con i limiti che l’istituzione ti pone. Qualche volta forzarli questi limiti e capire che in realtà sono messi, come un limite di media, ma sono negoziabili, non è che per forza è un divieto e che siccome si è sempre fatto così, siccome le persone sono più tranquille così, è stato previsto. Possiamo forzarlo? Cosa c’è bisogno per forzarlo? Bisogna scrivere un progetto? Un progetto in cui motivi… ok, scriviamo il progetto, fine. La mia esperienza nella scuola primaria, che ho raccontato anche nei libri, è legata a questa scuola di un piccolo paese della mia provincia. In questo piccolo paese c’era chiaramente una prossimità fisica delle risorse del territorio che non è quella della grande città. Ricordo una volta stavamo costruendo gli elementi tridimensionali delle famiglie dei numeri e quindi avevamo fatto dall’unità, fino al miliardo, il miliardo era questo cubo gigantesco di cartone, un metro, per un metro per un metro, e bisognava incollarlo e la colla era finita – perché uno degli elementi più preziosi nella scuola, la colla, perché purtroppo i bambini la usano spesso per rimpinzare i loro quaderni di schede, di fotocopie – ma questa colla, appunto, non c’era. Noi avevamo la nostra cassa comune in classe e quindi ho detto: “Bambini vi mettete il giubbotto e andiamo in cartoleria a prendere la colla”. Puoi uscire con più di 15 bambini? No, perché allora è tua responsabilità se succede qualcosa. Posso finire il mio lavoro senza la colla? No, non posso, e quindi siamo usciti e siamo andati a prendere una colla. Questo molti colleghi dicono, non puoi farlo, perché c’è un limite. Noi per l’inizio dell’anno facciamo firmare questo permesso per tutte le uscite sul territorio, senza doverlo preventivamente comunicare. Mi sono assunto la responsabilità, però la responsabilità di che cosa: di attraversare una strada e di andare in cartoleria. Con questo non voglio banalizzare i rischi che ci possono essere nell’uscire sul territorio: per me fare lezione è farla così e quindi mi assumo delle responsabilità. Oggi sono qui con voi e sono contento, felice perché queste cose le posso raccontare, perché mi è sempre andata bene. Effettivamente è un elemento che può fare la differenza, anche nelle scelte che fai in futuro. Quindi, torniamo alla domanda iniziale: come si passa dal “non si può fare” al “si può”, devi sentirla come un’esigenza, nessuno ti può dire che quella cosa la devi per forza fare così. 

04:38 MICHELA. 
E qui passiamo alla didattica, campo d’azione nelle scelte che un insegnante può fare, che siano coerenti fino in fondo, con quello che ha riscoperto essere il proprio valore. Quindi chiedo a te: quali sono state le tue scelte di metodo?

04:53 DAVIDE. 
Ma, scelte di metodo, era quello di essere a-metodico, ovvero di provare a mettere a disposizione dei miei studenti più percorsi possibili per raggiungere gli stessi obiettivi. La didattica è una scienza interessante, diciamo che è la scienza dell’insegnante, quella di cui non insegnanti dovremmo essere esperti. È particolare, perché mette in gioco una parte di noi. 
Si pensa alla didattica soltanto come al trasporre il sapere accademico in un sapere insegnato, si dice, secondo anche lo schema degli studiosi – Chevallard, mi viene in mente, rispetto a questo – ma prima di chiedersi come quella grande cosa io posso insegnarla e qualcuno può apprenderla, mi devo mi devo fermare a pensare, che rapporto c’è tra me e l’oggetto dell’insegnamento. Se io odio la matematica, ma come la insegno? E per forza che la insegno come una sorta di blister di pillole che devi ingerire e una volta ingerite, la malattia, insomma, l’abbiamo passata via. È in gioco il tuo modo, il tuo rapporto con quella disciplina, con quel sapere specifico, e questo è fondamentale, se tu vuoi passare delle chiavi di quel sapere a qualcun altro. Altrimenti quei cassetti rimarranno chiusi, te li posso far vedere, te li passo in rassegna, purtroppo spesso superficiale, ma quel livello di accesso al cuore del sapere, non c’è. E l’altra parte che è importante è come gli studenti imparano il sapere. Allora, capisci, che il passo prima della didattica, cioè di quello che io faccio praticamente in classe, è un passo di studio, di ricerca, di osservazione: perché quel bambino è in difficoltà su quella cosa, in questo modo, con questo strumento, quale strumento alternativo? Sicuramente la mia didattica era fatta di ascolto, per poter, in qualche modo, apparecchiare la tavola, ma la tavola spesso veniva apparecchiata anche di strumenti, quelli che, Montessori chiama materiale di sviluppo. Quindi dare la possibilità ai bambini di esplorare i materiali, di lavorare, di giocare, come dicevano loro, con i materiali e, mentre giocavano, il materiale insegnava loro qual era il cuore di quel sapere. Quindi, una didattica, se vuoi, che paradossalmente è fatta più a casa, perché i materiali mi li preparavo a casa, li pensavo a casa, li copiavo dalla Montessori, o li compravo direttamente, se penso, quelli più montessoriani strutturati, e quindi li adattavo poi al mio contesto. Questo mi ha portato ad avere quest’aula, con una ricchezza di stimoli notevole per i bambini, dalla matematica, alle scienze, alla geografia, all’italiano: tutte le discipline, tutto quello che mi sembrava importante o che rispondeva proprio a degli obiettivi che il Ministero mi dice. Ecco, mi sembrava un buon modo, quello di poter permettere a loro di fare da soli, come dice Maria Montessori, e a me di osservarli da un lato, quindi era come se io avessi occasione, mentre loro facevano il lavoro libero, così è chiamato dalla Montessori, di avvicinarmi ai bambini che, con quel materiale ognuno diverso dall’altro, mi facevano vedere, il loro modo di lavorare: e così potevo rispondere in maniera puntuale alla difficoltà di ciascuno. Questo è stato un tentativo importante. E l’altro modo di fare didattica è partire sempre dalle esperienze, cioè fare esperienze vere delle cose che vogliamo affrontare: quindi se si dice, non so, scriviamo dei testi, ok, per me l’esperienza è stata facciamo un giornale, facciamo un giornale vero, che vendiamo in edicola, perché nell’esperienza vera c’è questa cosa di essere tutti coinvolti, di buttarsi, di vedere una cosa che ha senso, no, è che a scuola non si fanno delle parentesi di vita, ma la scuola è vita. 

08:45 MICHELA. 
Sì, e a proposito di esperienze ricordo bene che tu parti anche dall’esperienza: il tuo tempo a scuola parte dall’esperienza dei ragazzi, parte dell’esperienza che loro hanno di quel determinato argomento, di quelle determinato aspetto della vita che vuoi affrontare in classe.

09:04 DAVIDE.
Sì, come dire, è molto il primo step, penso quando si fanno gli incontri tra adulti si usa il brainstorming, come se fosse, questa grande invenzione, che però ha come elemento chiave, ancora una volta, quella di ascoltare e di far emergere quelle che sono le conoscenze, le cose che si sanno. Anche questa cosa può essere usata in maniera veramente didascalica e pedante, diventare noiosa. Io ero veramente curioso di sapere che cosa loro pensavano, mi incuriosisce il loro mondo: il loro punto di vista sul mondo. Ero curioso di raccoglierlo, per questo che tutte le volte che c’era una conversazione, che loro mi raccontano qualcosa, la registravo, la trascrivevo, gliela restituivo, ne parlavamo ancora insieme, 
perché su quello dobbiamo imparare a lavorare, sui nostri modi di leggere il mondo. E per questo ci servono dei saperi specifici che ci vengono delle discipline, però quello che è in gioco è il nostro modo di vedere il mondo, il nostro modo di essere nel mondo. Ecco, quindi, la scuola che non può chiudersi dentro una lezione, ma a che fare con l’esistenza, con le persone.

10:08 MICHELA.
Immagino che qui la sfida sia anche creare quel contesto adeguato: so che anche nella vostra esperienza a scuola, vi siete dati un momento in cui ogni 15 giorni vi incontravate come insegnanti per riflettere. Ti chiedo di condividere con noi le difficoltà e i punti di forza di questa fatica che avete fatto in più.

10:29 DAVIDE.
Sì, io arrivo alla scuola primaria con questa esperienza pregressa nella formazione professionale e, nella formazione professionale, avevamo questa possibilità: cioè di avere una supervisione. E ripensandoci trovo sia assurdo che nella scuola – un luogo in cui le relazioni hanno un peso così importante, non parlo solo delle relazioni tra persone, ma le relazioni tra colleghi, con gli studenti, tra studenti, ma anche le relazioni con il sapere, è un mondo di relazioni la scuola – sia uno dei pochi luoghi che lavora su questo aspetto relazionale che non ho la supervisione, cioè 
gli insegnanti sono lasciati a loro stessi nella gestione delle dinamiche relazionali. Si pensa che siano tutti esperti di dinamiche di gruppo, probabilmente, e quindi oltre a essere esperto di didattica, sai anche come gestire un gruppo, sai come gestire le relazioni che nel gruppo vengono messe in gioco. Allora, secondo me questo non è un dato per scontato. Io nella formazione professionale avevo sperimentato la supervisione educativa periodica e la trovavo una grande risorsa di stimoli, non solo per iniziare a trovare domande nuove per leggere quello che facevo e quindi anche delle risposte, ma perché è cambiato il modo in cui il gruppo di insegnanti si vedeva l’un l’altro, cioè il modo di percepirsi come gruppo, il modo di percepire il mio collega. Se ho occasione di lavorare con te, al di là dell’ambito disciplinare, al di là del nostro impegno con la classe e se ci ritagliamo uno spazio in cui ci interroghiamo, io inizio a vederti come persona. Questo aspetto era una traccia che riconoscevo, una traccia importante del mio percorso professionale a scuola e quindi, quando sono arrivato alla scuola primaria, mi sono sentito di proporlo subito. Così ho chiesto ai colleghi di condividere quella pagina di diario, di mettere una pagina che fosse una pagina che raccontasse una scena di una nostra difficoltà, di metterla in condivisione. Adesso non entro nel dettaglio di come si strutturava la supervisione, posso dirti che sicuramente, anche in quel caso, in quella esperienza che ho fatto, che è durata per 3 anni, il punto di forza è stato il gruppo, cioè quello che gli insegnanti iniziavano a percepire come una dimensione collettiva del nostro lavoro: perché il vocabolario si modificava, il nostro modo di guardare ai bambini si modificava. Sicuramente, non possiamo pensare che questo accada così magicamente, perché una persona scrive una pagina di diario e dice va bene ci troviamo. C’è un setting da preparare e quindi, se vuoi, anche il mio ruolo di facilitatore dell’ascolto in quel setting era un po’ difficile da tenere, nel senso che ero sia l’insegnante che era coinvolto, sia colui che dava la parola, che visualizzava le parole chiave su una lavagna, che cercava poi di accompagnare con metodo il gruppo ad arrivare in fondo al percorso. Però ricordo, lo cito anche nel libro in “Si può fare”, che a un certo punto ci sono i bambini che mi chiedono conto della nostra sistemazione dei banchi in classe e io rimango allibito dalla loro domanda, mi dico “No, com’è possibile?” volevano una classe vera, con i banchi disposti tutti in fila e mi dicono “Come le altre classi”, eravamo all’inizio della seconda. Allora facciamo un giro per le altre classi, erano proprio i primi giorni di settembre, e troviamo che tutte le classi, tranne una, avevano i banchi a isole come le nostre. Non che questo sia un pregio in sé, non voglio incensare i banchi isola o demonizzare, cioè sono setting. Però la cosa che mi ha colpito è che nessuno aveva deciso che quella fosse la disposizione migliore, molte delle mie colleghe l’anno prima avevano le classi con i banchi disposti per file, come li desideravo i bambini. Cosa è successo nel mentre che ha fatto cambiare loro idea, qual è stato l’esplicito o l’implicito? Non certo che io abbia detto così si lavora meglio, così c’è meno confusione. È che, probabilmente, dopo tutte quelle supervisioni in cui si riconosceva il valore del lavoro di gruppo per i bambini e di come il “tra pari” si possono apprendere delle cose diversamente che con la mediazione diretta dell’insegnante, all’inizio del nuovo anno, molte colleghe hanno scelto di provare una disposizione diversa. Secondo me è una ricaduta positiva, c’è stato un percorso di apprendimento, un percorso che è stato capace di mettere in discussione alcuni impliciti, perché magari molte colleghe mettevano i banchi così, non perché credevo in una disposizione di banchi per file o per colonne, ma semplicemente perché si è sempre fatto così, perché la scuola, come mi hanno detto i bambini, la scuola vera, è fatta così, maestro.

15:20 SPEAKER. 
Edunauta quali sono le sette regole dell’arte di ascoltare?

15:28 MICHELA. 
Nel suo libro “Si può fare”, il maestro Davide condivide le 7 regole tratte dal libro di 
Marianella Scalvi, “Arte di ascoltare e mondi possibili”, che sono:
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni.

2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando avrai imparato ad ascoltare, l’umorismo verrà da sé.

Grazie. Ecco l’ultima domanda è legata a oggi: oggi è il primo Aprile 2020 e, non è uno scherzo, stiamo vivendo un tempo molto particolare, che è quello di un’ondata di un nuovo virus che ha portato tutti a casa, insegnanti, studenti, genitori, tutti. È vero che in questo momento tu non stai insegnando, ma sei tornato ad essere studente, come dottorando alla Bicocca di Milano, ma se dovessi immaginarti maestro della tua classe, come pensi di essere in relazione coi tuoi studenti?

16:48 DAVIDE.
Avrei voglia di vederli, avrei voglia che loro potessero vedersi e quindi, diciamo che questo supporto tecnologico, potrebbe essere di grande aiuto. Però, nel paese in cui ero io non c’era un buon segnale wi-fi, quindi in moltissime case non c’era una fibra, ma una ADSL. Allora, io lo sto facendo, scriverei una lettera a ciascuno di loro, perché in quel modo sono sicuro di poter raggiungere tutti e, come piaceva anche a loro fare durante l’estate, loro potrebbero rispondermi, potrebbero scrivermi. Quello che penso che ci sia da fare oggi è 
tenere acceso, vivo il legame, oggi che guardiamo gli altri come delle minacce, non più soltanto gli stranieri sono delle minacce, come piaceva raccontare a qualche politico, da sempre, oggi tutti sono una minaccia. Allora, oggi più che mai, dobbiamo ricordarci dell’importanza che ha il legame sociale, il legame tra persone e, forse, anche provare a vedere la situazione di oggi, come una situazione in cui riprendere, riscoprire quello che abbiamo perso nella superficialità delle nostre relazioni con gli altri. Poi mi piacerebbe che loro mi raccontassero il loro punto di vista sulle cose e quindi poter raccogliere questo punto di vista. Vorrei stare attento, io vedo che succede questa cosa un po’ ai miei figli con la scuola, non potrei accettare di perdere qualcuno. Quindi, se qualcuno non si può connettere, diventa escludente la scelta di fare una classe virtuale. Capisco che ci siano tante difficoltà. Non penso che sia così strettamente necessario riprendere in mano i libri per forza. Proverei a ricucire il legame e quindi questo gruppo classe, a rimetterlo insieme con gli strumenti che ci sono a disposizione, che possano però tenere insieme tutti. Dentro quello sicuramente possiamo anche lavorare sui saperi. Però prioritariamente vorrei rivederli, ecco, vorrei che ci vedessimo la mano e se questa mano è una mano virtuale o è una mano cartacea legata a una lettera, va bene, cioè quello che deve passare, come quello che si cerca di imparare a scuola, che anche in questa situazione non sei da solo, che anche in questa situazione gli altri possono esserti di aiuto: ecco, mi piacerebbe che la scuola avesse questa voce, questa postura. Le persone in questo momento hanno bisogno di questo: forse ce ne stiamo rendendo conto, le problematiche legate all’isolamento, alla clausura forzata, che è stata messa in campo per riuscire a uscire da questa situazione, può essere una sofferenza, si dice psicologica, ma io direi una sofferenza relazionale per molti. Dove le case sono strette, anguste, magari sono popolate da individui che non si parlano, non si rispettano, non si amano e la casa diventa un inferno, allora deve esserci un ponte di serenità e la scuola questa cosa la deve garantire a tutti.

19:45 SPEAKER.
Edunauta quindi quali sono i passi che un insegnate può compiere per passare dal paradigma del problema a quello della possibilità?

19:55 MICHELA
Definire quelle che sono le cose irrinunciabili e iniziare a percorrere la strada che le realizza; pensare alla scuola come luogo dove si impara a leggere il mondo; e ritagliarsi uno spazio in cui interrogarsi e confrontarsi. 
Vorrei concludere questo dialogo, riprendendo una dedica che tu hai fatto sul tuo libro “Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini”, ri-dedicandola a tutti gli insegnanti che ascolteranno questo podcast: “A chi sogna di fare il maestro come nessun programma può prescrivere e nessun regime può impedire di fare”. Grazie Davide, per questa testimonianza e che infonda il coraggio che in molti c’è, per fare la differenza, perché gli ingredienti sono dentro di noi e la differenza si può fare.

20:44 DAVIDE.
Grazie

20:48 MICHELA. 
Continuate ad esplorare insieme a noi l’universo della relazione educativa con gli episodi di Edunauta su www.edunauta.it

20:58 SPEAKER: 
Un progetto di Generas Foundation, scritto da Michela Calvelli. Post- produzione e audio di Erazero.

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