Come educare al senso di responsabilità con Osvaldo Poli

00:00 MICHELA.
Avete mai pensato quali sono le fatiche che è bene lasciare ai figli? È possibile accompagnarli ad amare lo studio?
Sono Michela Calvelli e questo è Edunauta, l’esploratore di pratiche educative. Dialoghiamo con chi l’educazione la vive, per ri-sognarla e trasformarla insieme.
Oggi esploriamo il pensiero educativo e alcuni strumenti pratici suggeriti da Osvaldo Poli. Il dottor Poli lavora come psicoterapeuta nell’ambito della genitorialità e, con le sue pubblicazioni, ci accompagna sapientemente nell’invisibile prigionia che soffoca il nostro agire come genitori, per liberarcene e permettere alla parte più vera di noi di manifestarsi.
Osvaldo, in questo ci siamo trovati improvvisamente minacciati da un virus invisibile e sconosciuto, tu, nel tuo lavoro, fai spesso riferimento a questi virus, soltanto che di un altro tipo, di tipo psicologico, non meno invisibile e minaccioso, però, ma con cui, forse, ci siamo ormai abituati a convivere. Si tratta di quei virus che avvelenano e condizionano i nostri rapporti con gli altri e anche con i nostri figli, ma basta accorgerci di loro per iniziare a liberarcene: ci fai qualche esempio aiutandoci a smascherarli quando sono in azione?

01:27 OSVALDO.
Certamente, confermo che esiste una analogia stringente fra il virus biologico che ha causato l’attuale pandemia e i virus psicologici che sono entità invisibili, ma altrettanto potenti che possono infettare la psicologia del genitore e indurre alcuni atteggiamenti educativi troppo faticosi, inutili e controproducenti, contrari, cioè al bene educativo reale dei figli, che è la cosa più importante. I virus psicologici si potrebbero definire ‘pensieri nascosti? Presupposti impliciti?’ Spesso sono paure e convinzioni errate che rendono difficili i rapporti educativi e in generale i rapporti fra le persone.
Alcuni tra i più comuni:
- il terrore di fare gli stessi errori dei propri genitori (che induce a farne altrettanti di natura opposta)
- La paura che mio figlio non capisca che gli voglio bene (che quindi non si senta capito)
- La paura che abbia dei problemi e non me li dica (questo per esempio induce ad essere assillanti e preoccupati fuori misura)
- La paura di non ‘ fare mai abbastanza’ (in questo caso come genitore)
- La paura che sviluppi un atteggiamento affettivo ad altre persone e non a me o non solo a me (sto figurando la gelosia in questo caso)
Queste paure, sotto il velo dell’inconsapevolezza, inducono il genitore a perdere l’equilibrio, a fare troppo o troppo poco di ciò che sarebbe necessario, a dire NO quando sarebbe il caso di concedere, o dire SI quando sarebbe opportuno proibire. Ma il virus più diffuso, con effetti di vera pandemia psicologia, soprattutto nell’universo femminile, è il virus del senso di colpa.

03:04 SPEAKER.
Edunauta, oltre ai i virus psicologici già descritti, Osvaldo ci fornisce anche una rassegna di virus culturali nel suo libro “La mia vita senza di me”: ce li puoi illustrare?

03:15 MICHELA.
Eccone alcuni stralci rielaborati dal suo libro:
Virus 1: credere che i figli non sappiano sopportare il dolore della vita, “Poverina-poverino, potrebbe sentirsi incompreso”, il pensiero del genitore / La cura: ascolta il tuo sentire morale, prova a discriminare qual è il reale bene educativo del figlio.
Virus 2: smarrire la confidenza in sé stessi come genitori e dipendere dall’opinione esterna “cosa penserà la maestra”, “chi mi dice come devo fare?” / e la cura: amare maggiormente la verità e la giustizia del figlio stesso e far riferimento al proprio sistema di valori
Virus 3: fare la serva “Corro a destra e sinistra tutto il giorno per accontentare tutti” / la sua cura: non è vero che solo i genitori hanno dei doveri, per una vita buona in classe, in famiglia, coi fratelli, sono necessari impegno e fatica anche dei figli.

04:10 OSVALDO.
Il senso di colpa è onnipresente, pervasivo, incrementato dalla nostra cultura educativa, della cultura pedagogica attuale in maniera esponenziale, una roba che non si può vedere. Sono prigioniere di questo virus soprattutto le mamme, l’universo femminile. Dal punto di vista psicologico è una specie di buco nero, intorno al quale ruota tutto il pensiero. La capacità di capire, perché succede quello che succede, quando gira intorno a questo buco nero, distorce la realtà. È fatto di quella sostanza per cui, traducendolo, si potrebbe dire, “Tocca a me, è responsabilità mia, di genitore, fare due cose: impedire al figlio di fare la cosa sbagliata e convincerlo a fare quella giusta”. “Se non riesco in questa operazione, e dunque se mio figlio continua a fare la cosa sbagliata, si è certamente lui che sbaglia”, ma, il retro-pensiero è: “Però, alla fine, la colpa è mia, perché se avessi capito di più la ragione per cui; se avessi trovato delle parole diverse; se avessi insistito di più; se lo avessi lasciato sbagliare; se, qualsiasi cosa; alla fine, l’errore suo, è riconducibile a me”. Se uno fa il link, un po’ sovrappensiero, tra queste cose si ritrova prigioniero di questo senso di colpa, che poi lo induce a fare delle cose assolutamente sbagliate.

05:20 MICHELA.
Quindi, rispetto al senso di colpa, un passaggio fondamentale è quello di esserne consapevoli. Poi, accompagnare i figli restituendogli la loro responsabilità, quella che tu chiami la strategia della responsabilizzazione, ce ne puoi parlare?

05:35 OSVALDO.
È chiaro che, se tu sei prigioniera del senso di colpa, non ti azzardi nemmeno a dare la responsabilità di ciò che sta accadendo al figlio e quindi, ti aggravi di un peso che è irragionevole e importabile, direi, perché, agisci, fai, e parli come se tutto dipendesse da te e nulla da lui. La cosa è del tutto inverosimile ed è un guaio per la nostra cultura educativa, perché, a volte, per esempio, si vedono dei genitori che dan la colpa dell’insuccesso agli insegnanti, gli insegnati dan la colpa ai genitori che non c’hanno tempo di seguirlo il pomeriggio e nessuno disturba il “tatone” che è lì che gioca con l’iPad, che invece andrebbe coinvolto nella diagnosi realistica della situazione. Quindi, dicevo, che i figli vanno responsabilizzati, ma vanno responsabilizzati per davvero, lo dico così un po’ provocatoriamente, ai figli non è che bisogna toglierci dei problemi, bisogna creargliene dei problemi. Ad esempio: prende 5, che è il classico che rappresenta proprio per antonomasia la cosa che non va bene, ce ne sono tante altre molto più importanti, ma esemplifichiamo: prende 5, la mamma tendenzialmente, fa la diagnosi, cioè cerca di capire ella stessa il perché di tutto ciò, stabilisce la terapia, cioè che cosa bisogna fare per rimediare, e poi fa pure la fatica di convincere il figlio ad applicarla, tre fatiche sovraumane. Invece bisogna che le fatiche le faccia il figlio. Quindi, attraverso delle domande appropriate, bisogna metterli nella condizione, essi, di fare la diagnosi, di capire la terapia e di, farsi venir la voglia di attuarla. Traduzione: quando un figlio prende 5 la domanda più appropriata, responsabilizzante, sarebbe “E tu, tu, non io, hai capito perché, hai preso sto voto?”, quella fatica di fare la connessione, di capire la causa di tutto ciò, deve farla lui, perché se la fai tu, gli dai modo di fare la vittima delle tue incapacità affettive. Seconda domanda “Hai voglia di recuperare?”, perché “se hai voglia te, magari ti do una mano, se invece c’ho voglia io, perché sembra che il 5 faccia più male a me, che a te, non ci siamo, perché partiamo dal presupposto sbagliato di cui sopra”. La terza domanda è: “Sai già come fare?”. I figli vanno responsabilizzati già nel capire il perché delle cose, nel cercare la soluzione dei problemi e anche nel farsi venire la voglia e quindi, di affrontare la fatica di aggiustare le situazioni, superando un virus, che è diffusissimo nella generazione dei nostri figli, che caratterizza l’immaturità, che è la paura e il rifiuto della fatica. La fatica è l’aspetto doloroso, scritto con la d minuscola, della vita e dell’esperienza. Finché uno ha paura della fatica e non ha esperienza del tesoro che contiene e che promette, affrontandola e superandola, è chiaro che attua ancora quei tentativi che sono riconducibili all’immaturità, come schivare, fare poco, fare male, fare dopo, fare il minimo indispensabile, che caratterizza, appunto, questa coloritura psicologica dell’immaturità. Quindi, farlo diventare grande, significa aiutarlo a fare esperienza, proprio, ad affrontare la paura, invece che esserne succube, poi, realizza la promessa di felicità, di consolazione, di sicurezza di sé, che è veramente impressionante.

08:57 MICHELA.
I tre passi si possono distinguere in: verità, quindi accompagnarli a stare di fronte alla verità della situazione, che deve essere però anche letta da loro; quindi, una distinzione dei punti di vista, quello del genitore quello del figlio e poi responsabilizzarli verso un’azione…

09:12 OSVALDO.
Per esempio, è il bene del figlio che richiede di aiutarlo a dirsi la verità e porto un caso molto comune, molto comprensibile, credo. Un genitore dice al figlio: “Mi sembra di capire che tuo fratello ti dia fastidio per il solo fatto che esiste, perché altrimenti non riesco a spiegarmi tutte le piccole torture e gli sgarbi quotidiani a cui lo sottometti.” “Mi sembra che proprio ti dia fastidio e che non c’avresti voglia neanche che fosse al mondo.” Punto numero 1: la consapevolezza a cui segue: “Ho capito bene, ho capito male? È proprio vero o non è vero?”. Il valore della verità qui è veramente decisivo, non si tratta di guidare i comportamenti dei figli, si tratta di aiutarli a renderli consapevoli, a giudicarsi da sé stessi e trovare dentro di sé la voglia di migliorarsi, perché questa è la vera strategia. Perché finché controlliamo i loro comportamenti, magari si comportano bene, non danno delle patacche al fratello, ma non matura. Uno matura quando trova dentro di sé una motivazione comprensibile, accettabile, personale per aderire al vero, al bene. Non perché altrimenti poi lo metto in punizione. II figlio va incoraggiato a non aver paura della verità e della ferita che essa comporta. Sempre la verità il primo passo. Il secondo passo è chiamare in causa la sua coscienza, non prestargli la nostra. Spesso noi lo sgridiamo, come dire utilizzando le nostre motivazioni, il nostro punto di vista e spesso noi pretendiamo di fare il copia-incolla del nostro pensiero, di trasferirlo magicamente in quella testolina lì. Spesso non va su, perché è un sistema operativo diverso, noi scriviamo su Windows, lui c’ha iOS e anche se premi il tasto ‘invia, invia, invia’, per mille volte, alla fine non lo convinciamo che le cose stanno come diciamo noi. Benissimo. A questo punto invece accendiamo la sua coscienza e la sua coscienza è il secondo passaggio: “E tu che cosa dici di un fratello così? A te il fatto, di punirlo tutti i giorni, di maltrattarlo per il solo fatto che esiste, ti sembra una cosa giusta? Una cosa bella? O sì o no. Ed eventualmente perché secondo te è proprio bello e giusto così?” È chiaro che se si impegna a rispondere a queste domande si accorge da solo che fa un arrampicarsi su per vitrus, di quelle insostenibili. Magari lì per lì non lo ammette, ma la sua coscienza di notte gli parla. Perché la verità lavora di notte e quindi non è che diciamo queste cose per veder riconosciuta la nostra ragione: siamo più sottili, diciamo queste cose per attivare la sua intelligenza, la sua coscienza morale. Finché facciamo noi i grilli parlanti rischiamo di prendere le ciabattate, come diceva il noto romanzo. Aiutarlo a capirsi e a dirsi la verità, aiutare ad ascoltare la propria coscienza e decidere di conseguenza: sono i 3 passi della responsabilizzazione. Responsabilizzare un figlio è l’antidoto reale allo stargli troppo addosso, che invece caratterizza il nostro stile educativo odierno. Devo stargli sempre addosso, devo tirarlo, devo spingerlo, che dicono fatica, se non ci sono io questo qua non fa nulla e quindi cercare di capire qual è la linea rossa che taglia il cordone ombelicale, e separa e distingue la nostra responsabilità dalla sua. E dunque per chiudere questo ragionamento, direi che questa definizione per me è convincente: educare un figlio significa fare ciò che ci è possibile per aiutarlo a diventare una persona migliore e questo si realizza nella misura in cui collabora. È la sintesi del mio pensiero, della mia esperienza professionale e la ripeto, e la commento in queste tre parti di cui è composta: fare quello che ci è possibile. Ciò che ci è possibile lo decide il figlio, non noi e spesso dobbiamo stare dove ci mette. Questa è una grande fatica dei genitori e a cui tutti i giorni, in cui tutti i giorni incappo e a cui li devo accompagnare: è l’accettazione serena dell’impotenza. A volte ci si ritrova impotenti ed accettare serenamente l’impotenza è il principio del cambiamento. Crea le condizioni perché il figlio maturi. E dunque, l’accettazione di impotenza, fare quello che ci è possibile, perché a volte ciò che ci è possibile lo decide il figlio, ripeto, non noi, e dobbiamo dolorosamente stare al di qua della riga. Dolorosamente significa con tanta preoccupazione, con tanta amarezza, con tanta disillusione, ma non col senso di colpa. Il senso di colpa è un dolore malato: la preoccupazione, la disillusione, l’amarezza è un dolore sano. A volte dobbiamo per forza andare sulla croce dell’impotenza. Noi genitori abbiamo due cassette degli attrezzi: abbiamo una cassetta di attrezzi che si chiama “con le buone” e l’altra che si chiama “con le cattive”. C’è dentro tanta roba quasi tutti strumenti imperfetti, ma non sbagliati. Si provano tutte, con le buone e con le cattive, ma poi a un certo punto uno si accorge che arriva al capolinea. Molti genitori si accorgono che, ormai, non hanno più carte da giocare, arrivano a dama, così alcuni mi dicono. Direi che la fatica più grande di noi genitori è proprio questa oggi: di capire e accettare i nostri limiti, di accettare il limite del nostro potere, della nostra influenza educativa e riconoscere invece quella del figlio, e giocarla, metterla in atto, fare in modo che la usi e se ne prenda pure la responsabilità. Perché il più delle volte ciò che cambia i figli non sono le menate, le prediche dei genitori, è assumersi la responsabilità del proprio giudizio e delle proprie decisioni che spesso determina il cambiamento.

14:51 MICHELA.
Io vorrei farti una domanda sul “cosa significa essere sé stessi nello studio”, quindi com’è possibile accompagnare i figli ad apprezzare lo studio come valore? Così, un piccolo affondo su questo, riportando anche una tua citazione che mi è piaciuta molto, quando scrivi: “Non c’è vita dell’intelligenza, senza sé stessi”.

15:10 OSVALDO.
Sì, anche qui è una traduzione concreta del coraggio di essere sé stessi. Cioè il coraggio di capire a modo proprio, è il coraggio di riformulare tutte le cognizioni secondo il tipo di sensibilità ed intelligenza che io c’ho. È il coraggio di essere me stesso invece che essere anaclitico, cioè appoggiato al libro, ripetere il libro. Perché lo studio diventa sfiancante se fosse così. Studiare altrimenti diventa fotocopiare mentalmente il testo, saperlo ripetere praticamente, quasi a memoria, invece che internalizzare i contenuti a modo mio. Ci vuole del coraggio perché devi superare la prova paurosa del, qui è invisibile, ma si può tradurre così: “Ma se io capisco a modo mio, capisco veramente le cose come vanno capite?” È la prova vera delle tue capacità intellettuali, perché poi quando tu riformuli a modo tuo e centri l’obiettivo e ti dicono: “Sì è proprio così, bene, bravo!” allora capisci il senso del tuo valore intellettuale, diventi anche più sicuro di te e la tua autostima aumenta. Finché ti appoggi al libro, non hai il coraggio di pensare la cosa a modo tuo, tantomeno di restituirla a modo tuo, rimani sempre insicuro di te e del tuo valore. Presumi di essere capace, ma non ne hai la prova. E anche qui c’è un coraggio di gettarsi nel vuoto, di staccare la manina dal muro e muovere i primi passi in solitudine, per conto tuo, che è il coraggio di capire le cose a modo mio e di ridirle secondo la mia sensibilità, secondo le caratteristiche della mia intelligenza. Muovere i passi da soli: non abbiamo che noi stessi e quindi dobbiamo fidarci di noi, fino a prova contraria.

17:08 SPEAKER.
Edunauta quali sono, secondo Osvaldo, i passaggi che ci accompagnano ad una motivazione matura nello studio?

17:15 MICHELA.
Osvaldo nel suo libro “La voglia di studiare: come aiutare i figli ad amare lo studio” scrive che la conquista di una motivazione matura allo studio è il passaggio:
– dal ripetere, al ricercare, cioè personalizzare l’apprendimento con la scoperta di qualcosa di nuovo;
– dalla preoccupazione del voto, alla centralità della crescita personale, che è riconoscere più importante la realizzazione di un’esperienza di crescita culturale ed umana;
– dal sentirsi una fotocopiatrice, all’esperienza della Sorgente interiore, che è l’esperienza di essere abitati da dove nascono i pensieri ed associazioni di idee che “aprono la mente”.
Ci sono delle frasi che tu a volte riporti che ci aiutano ad immaginarci come genitori rinati, freschi e leggeri, nel rispondere alle sfide che il nostro compito educativo ci richiede, ti è possibile restituirci qualche esempio?

18:12 OSVALDO.
Si è possibile. Ho una mia personale top ten, in cui il ricordo delle mamme, per così dire guarite dal virus, che sono diventate belle fresche e leggere, come dire, poco attaccabili dagli incantesimi. Si dice da noi “scantate”: che è un bel termine per dire che non sono soggette ad incantesimo, appunto, perché amano la verità più del figlio stesso. Riporto qualche esempio a tal proposito. È un corollario di mamme guarite. Una mamma mi racconta che rimproverando la figlia di due anni e mezzo, perché andava rimproverata, ella risponde: “Mamma cattiva”. Precedentemente andava in crisi e pensava: “Se anche mia figlia non si sente amata da me, sono una donna fallita”. L’ultima volta che c’ha provato, la bambina ancora risponde, perché ovviamente i bambini fanno il loro mestiere: “Mamma cattiva” e lei d’un tratto risponde: “Cerca di non dimenticartelo”. Con la coloritura dell’ironia.
Un’altra mamma quando il figlio risponde: “Però le altre mamme sono migliori di te” la risposta più opportuna è: “Si ma c’hanno anche i figli migliori di te” e quindi finisce con lo smile, finisce con un sorriso che lascia i rapporti belli, distesi e freschi.
L’ultima che racconto è questa: un figlio quindicenne dice alla mamma: “Tutti gli altri miei amici della compagnia c’han più soldi di me.” Si tratta della paghetta settimanale, però l’insinuazione, anche qui la flebo è molto sottile, l’insinuazione del c’ho meno soldi degli altri, quindi questo equivale al fatto che tu non mi vuoi bene, perché poi alla fine cade sempre lì il discorso. E dunque la risposta della mamma: “Cercati degli amici più poveri”. Smile.
E quando hai debellato il senso di colpa c’è un senso di leggerezza, ti si scatena l’ironia che è una meraviglia. Il peso educativo non è così gravoso e i rapporti sono più ti distesi.

19:50 SPEAKER.
Edunauta, puoi dirci come iniziare a mettere da subito in pratica i suggerimenti del Dottor Poli?

20:00 MICHELA.
Oggi, domani, alla prima occasione, in cui nostro foglio o nostra figlia rivela le sue fragilità, invece che prendercene carico noi o invece che rimproverarli a vuoto, proviamo a restituirgli la loro verità, aiutandoli a guardarsi onestamente, ad ascoltare la propria coscienza e a chiedersi cosa vogliono fare a riguardo. Ecco grazie a Osvaldo Poli che oltre ad averci accompagnato dentro la mappa per riconquistare la verità come genitori educatori, ci offri anche con generosità sul tuo sito www.osvaldopoli.com, molti video, pubblicazioni, estratti dei tuoi libri e diverse raccolte con strumenti di riflessione e approfondimento, per poter intraprendere i primi passi verso sé stessi come genitori, come educatori e come esseri umani. Grazie!

20:50 OSVALDO.
Grazie a voi, grazie.

20:56 MICHELA.
Continuate ad esplorare insieme a noi l’universo della relazione educativa con gli episodi di Edunauta su www.edunauta.it

21:04 SPEAKER.
Un progetto di Generas Foundation, scritto da Michela Calvelli. Post- produzione e audio di Erazero.